Le terribili scene dell'invasione russa in Ucraina, che da giovedì 24 febbraio hanno fatto precipitare il mondo nel terrore con conseguenze ancor più devastanti dei conflitti registrati negli ultimi anni, provocano angoscia, sgomento, ripugnanza e un senso di impotenza collettiva, davanti alla follia di Vladimir Putin e del suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. Lo scudiero e fedelissimo del capo del Cremlino minaccia -senza perifrasi- la guerra nucleare, se il conflitto dovesse estendersi oltre i confini dell'Ucraina. E' un chiaro e inequivoco ultimatum alla Nato, ma anche all'Unione europea, ad agire con cautela e non interferire nel "regolamento di conti" partito da Mosca. D'altronde, la raccapricciante visione planetaria di Putin si può sintetizzare nel vecchio e mai desueto mantra, più che una formula sacra, un autentico inno alla sua malata personalità e che oggi si rivela in tutta la tragica attualità: "La strada a Leningrado, cinquant'anni fa, mi ha insegnato una lezione: se la rissa è inevitabile, colpisci per primo". L'uomo di San Pietroburgo, nato settanta anni fa nella ex Stalingrado da famiglia di operai, con padre "comunista modello" e madre "devota credente ortodossa", è stato agevolato nella sua carriera proprio dall'acquiescenza di quel mondo occidentale che intende sopprimere, dopo aver incrementato su un vischioso piano diplomatico le relazioni con Cina e India. L'ignavia delle cancellerie internazionali, la genuflessione di capi di Stato e di governo, mai risoluti nel contrastare l'ascesa dell'ex Tenente Colonnello del KGB e braccio armato dell'Agenzia di intelligence che nel 1991 appoggiò Boris Eltsin nel fallito golpe per rovesciare Mikhail Gorbaciov, sono la causa principale del potere onnivoro dello zar del XXI secolo. Arretramento democratico, annientamento dei diritti civili e dittatura di idee e di azioni hanno rappresentato il modus operandi di Putin e neppure i più affermati analisti si sono mai cimentati nell'impresa temeraria ma reale di chiamare con il vero nome di dittatura, quella che con un termine edulcorato, ma improvvido, è stata ribattezzata federazione russa. Quando il criminale del Cremlino faceva uccidere giornalisti o oppositori, imbavagliava il dissenso, dopo un principio di generale disappunto (più di facciata che concreto), ad intermittenza sopraggiungevano i distinguo e anche qualche strabico e inetto americano continuava ad adularlo, immemore del ruolo strategico che il despota aveva ricoperto ai tempi della sanguinaria Unione Sovietica. Anche il grido d'allarme lanciato 18 anni fa da Gorbaciov sui pericoli immanenti di allontanarsi dalla via democratica, non solo scivolava nell'oblìo, ma veniva addirittura minimizzato, derubricando il j'accuse del padre della glasnost e artefice della perestrojka a una denuncia destituita di fondamento. Anzi, nel 2000 tra le altre aberrazioni -e sempre in ossequio al consenso- Putin approvava la legge modificativa dell'inno della federazione russa, riproponendo la musica di quello sovietico. Il glaciale inquilino del Cremlino ha capito subito quali erano i "nani" che governavano su scala planetaria, iniziando a frequentare il gotha della finanza e stringendo mani a evanescenti capi di Stato (Clinton), guerriglieri circensi (Gheddafi), marionette prestate alla politica e pirotecnici parvenu approdati nelle stanze dei bottoni. Sul fronte interno ha riscritto la costituzione, diventata liberticida, speculando -come accade sempre nelle dittature- sull'orgoglio popolare e sulle ricchezze (per pochi) effimere. Anche i "parrucconi" dello sport hanno contribuito a rafforzarne il potere "insanguinato", concedendogli l'organizzazione del Mondiale di calcio del 2018, Gran premi di automobilismo e i Giochi Olimpici Invernali di sci nel 2014 a Sochi. Eventi che corroborano il culto della personalità e annientano il dissenso interno, attraverso epurazioni, carcere senza appello per i dissidenti, torture di critici, repressioni della libertà di stampa, politica revanscista, quasi al livello degli orrori perpetrati nell'Unione Sovietica. Ed è sconvolgente quanto accade nel 2007, allorché persino il settimanale statunitense Time ne resta obnubilato, incoronandolo "Persona dell'anno". Ora l'auspicio è che le sanzioni -tardive ma efficaci, perché colpiscono anche i boiardi di Stato- possano creare profonde lacerazioni all'interno della nomenklatura russa e, dunque, anche tra i suoi sodali. Ma proprio nel momento in cui la parola "Pace" vibra nei cuori e nelle parole di tutte le persone sane, l'unica via d'uscita può arrivare dal cerchio magico del dittatore del Cremlino. Sì, le sanzioni mirano a infrangere il muro dell'arrogante e (im)potente ex funzionario del KGB, ma essendo ormai proiettato verso un traguardo illogico e con una strategia autolesionista, la fine delle ostilità potrà raggiungersi soltanto attraverso il deciso intervento dell'élite russa e di strateghi militari, per rovesciare 20 anni di regime, di cui l'Occidente ha fatto sempre finta di non accorgersi. Sperando che oggi non sia troppo tardi. (Pasquale Scaldaferri)
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